Ex Museo Coloniale di Roma
Piazza Guglielmo Marconi, 14, Roma, RM, Italia
Viola Aleida Massimi

In Italia, dove il passato coloniale resta poco discusso fuori dall’ambito accademico, è molto importante creare consapevolezza critica sulle narrazioni coloniali e sulla non universalità della conoscenza occidentale. È ciò che l’ex Museo Coloniale di Roma ha concentrato il proprio impegno con operazioni di “decolonizzazione del patrimonio culturale” atte a stimolare un dialogo inclusivo sul colonialismo italiano.
Nel 1922, con l’ascesa al potere di Mussolini, si aprì la possibilità di costruire un museo per “risvegliare” la coscienza coloniale degli italiani. Nell’anno successivo il progetto venne effettivamente portato a termine con l’inaugurazione del Museo Coloniale Italiano nel Palazzo della Consulta a Roma, in cui sarebbero stati ospitati i materiali raccolti nelle colonie africane occupate dall’Italia tra la fine del XIX secolo e gli anni Trenta del Novecento.
I fini del museo erano propriamente propagandistici e questo fu reso evidente quando nel 1935 venne spostato accanto al giardino zoologico in via Aldovrandi. La scelta di questo luogo non fu casuale, ma dettata dalla volontà di rendere visibile una similitudine tra un’alterità umana e un’alterità animale: immagini razziste di “personaggi” africani erano esposte in contrapposizione a immagini, dipinti, lettere e diari dei “grandi esploratori italiani”.
Nel 1938 il museo chiuse per inventario e riaprì solo nel 1947, quando l’Italia fu costretta a rinunciare formalmente a tutte le sue colonie, assumendo il nome di Museo Africano. All’inizio degli anni Settanta il museo chiuse definitivamente, dando inizio a un periodo di oblio e di smembramento dei reperti. Solo nel 2017 le collezioni passarono al Ministero per i Beni e le Attività Culturali entrando a far parte del Museo delle Civiltà, situato in piazza Guglielmo Marconi, nel quartiere EUR. Qui ha avuto inizio un percorso che ha coinvolto una rete italiana e internazionale di specialisti impegnati nella reinterpretazione e risignificazione dei reperti in chiave decoloniale, per mostrare l’invisibilità dei soggetti che il museo rappresentava, e la totale mancanza di considerazione della loro complessità come esseri umani.
Uno dei progetti a cui il museo ha partecipato è stato TRACES, finanziato dalla Commissione Europea, con lo scopo di indagare il ruolo del patrimonio scomodo nell’Europa contemporanea. Arnd Schneider e Leone Contini, rapportandosi con la collezione, l’hanno definita come un «corpo coloniale sparso, nascosto, poco conosciuto e quasi dimenticato». Da questa ricerca è nata la mostra “Bel suol d’amore. The Scattered Colonial Body” in cui, con l’aggiunta di archivi di famiglia della madre di Contini, originaria di Tripoli, sono sorte riflessioni critiche sulla connessione tra la sfera pubblica e le memorie private nel contesto coloniale.
Nel 2019 c’è stato il RESURFACE. Festival di sguardi postcoloniali, un progetto dell’associazione “Chiasma”, per fare luce sulle tracce di violenza di cui le collezioni coloniali del museo erano intrise. Nel 2021 c’è stato poi “EUR(H)OPE”, nato da una collaborazione con il collettivo Stalker, per creare uno spazio di analisi e riprogettazione del quartiere EUR di Roma, tra i più ricchi di tracce del passato fascista e coloniale italiano. Sempre nel 2021 è stato avviato un progetto promosso dall’Istituto Goethe di Roma, le cui opere finali sono state esposte nella mostra “L’inarchiviabile. Radici coloniali, strade decoloniali” per la decostruzione del concetto di archivio.
Ancora nel 2021 è stato lanciato il progetto “Unveiled Storages. Come immaginare un museo decoloniale”, in cui oggetti delle ex collezioni del Museo Coloniale sono stati esposti, insieme a pannelli trasparenti, nel cuore degli spazi del museo per essere meglio visibili al pubblico, invitato così a riflettere su come rappresentare la soggettività di un popolo colonizzato.
Nel 2022 il Museo ha ospitato il “Phonomuseum Rome” dell’attivista Wissal Houbabi, con l’intento di presentare gli oggetti dell’ex Museo Coloniale come portatori di ricordi e significati delle persone provenienti dagli stessi luoghi in cui essi sono stati reperiti.
Nello stesso anno Malak Yacout ha lavorato al progetto “Searching for Appendices to Truths Lost: The Broken Sunglasses of Omar Al Mukhtar”, per l’analisi di una delle reliquie più sensibili del museo: gli occhiali da sole probabilmente appartenuti al leader libico della resistenza anticoloniale Al Mukhtar, per riflettere su come mostrare la violenza e evitarne la celebrazione.
I risultati di tutti questi progetti sono stati esposti nel Museo delle Opacità, una prima mostra sperimentale aperta nel 2023 e curata da Gaia Delpino, Rosa Anna di Lella e Matteo Lucchetti. Alle collezioni dell’ex Museo coloniale si sono aggiunte opere critiche sulla storia coloniale italiana per creare continui riferimenti tra le forme di rappresentazione coloniale e le contro-narrazioni contemporanee.
In Italia, dove il passato coloniale resta poco discusso fuori dall’ambito accademico, è molto importante creare consapevolezza critica sulle narrazioni coloniali e sulla non universalità della conoscenza occidentale. È ciò che l’ex Museo Coloniale di Roma ha concentrato il proprio impegno con operazioni di “decolonizzazione del patrimonio culturale” atte a stimolare un dialogo inclusivo sul colonialismo italiano.
Nel 1922, con l’ascesa al potere di Mussolini, si aprì la possibilità di costruire un museo per “risvegliare” la coscienza coloniale degli italiani. Nell’anno successivo il progetto venne effettivamente portato a termine con l’inaugurazione del Museo Coloniale Italiano nel Palazzo della Consulta a Roma, in cui sarebbero stati ospitati i materiali raccolti nelle colonie africane occupate dall’Italia tra la fine del XIX secolo e gli anni Trenta del Novecento.
I fini del museo erano propriamente propagandistici e questo fu reso evidente quando nel 1935 venne spostato accanto al giardino zoologico in via Aldovrandi. La scelta di questo luogo non fu casuale, ma dettata dalla volontà di rendere visibile una similitudine tra un’alterità umana e un’alterità animale: immagini razziste di “personaggi” africani erano esposte in contrapposizione a immagini, dipinti, lettere e diari dei “grandi esploratori italiani”.
Nel 1938 il museo chiuse per inventario e riaprì solo nel 1947, quando l’Italia fu costretta a rinunciare formalmente a tutte le sue colonie, assumendo il nome di Museo Africano. All’inizio degli anni Settanta il museo chiuse definitivamente, dando inizio a un periodo di oblio e di smembramento dei reperti. Solo nel 2017 le collezioni passarono al Ministero per i Beni e le Attività Culturali entrando a far parte del Museo delle Civiltà, situato in piazza Guglielmo Marconi, nel quartiere EUR. Qui ha avuto inizio un percorso che ha coinvolto una rete italiana e internazionale di specialisti impegnati nella reinterpretazione e risignificazione dei reperti in chiave decoloniale, per mostrare l’invisibilità dei soggetti che il museo rappresentava, e la totale mancanza di considerazione della loro complessità come esseri umani.
Uno dei progetti a cui il museo ha partecipato è stato TRACES, finanziato dalla Commissione Europea, con lo scopo di indagare il ruolo del patrimonio scomodo nell’Europa contemporanea. Arnd Schneider e Leone Contini, rapportandosi con la collezione, l’hanno definita come un «corpo coloniale sparso, nascosto, poco conosciuto e quasi dimenticato». Da questa ricerca è nata la mostra “Bel suol d’amore. The Scattered Colonial Body” in cui, con l’aggiunta di archivi di famiglia della madre di Contini, originaria di Tripoli, sono sorte riflessioni critiche sulla connessione tra la sfera pubblica e le memorie private nel contesto coloniale.
Nel 2019 c’è stato il RESURFACE. Festival di sguardi postcoloniali, un progetto dell’associazione “Chiasma”, per fare luce sulle tracce di violenza di cui le collezioni coloniali del museo erano intrise. Nel 2021 c’è stato poi “EUR(H)OPE”, nato da una collaborazione con il collettivo Stalker, per creare uno spazio di analisi e riprogettazione del quartiere EUR di Roma, tra i più ricchi di tracce del passato fascista e coloniale italiano. Sempre nel 2021 è stato avviato un progetto promosso dall’Istituto Goethe di Roma, le cui opere finali sono state esposte nella mostra “L’inarchiviabile. Radici coloniali, strade decoloniali” per la decostruzione del concetto di archivio.
Ancora nel 2021 è stato lanciato il progetto “Unveiled Storages. Come immaginare un museo decoloniale”, in cui oggetti delle ex collezioni del Museo Coloniale sono stati esposti, insieme a pannelli trasparenti, nel cuore degli spazi del museo per essere meglio visibili al pubblico, invitato così a riflettere su come rappresentare la soggettività di un popolo colonizzato.
Nel 2022 il Museo ha ospitato il “Phonomuseum Rome” dell’attivista Wissal Houbabi, con l’intento di presentare gli oggetti dell’ex Museo Coloniale come portatori di ricordi e significati delle persone provenienti dagli stessi luoghi in cui essi sono stati reperiti.
Nello stesso anno Malak Yacout ha lavorato al progetto “Searching for Appendices to Truths Lost: The Broken Sunglasses of Omar Al Mukhtar”, per l’analisi di una delle reliquie più sensibili del museo: gli occhiali da sole probabilmente appartenuti al leader libico della resistenza anticoloniale Al Mukhtar, per riflettere su come mostrare la violenza e evitarne la celebrazione.
I risultati di tutti questi progetti sono stati esposti nel Museo delle Opacità, una prima mostra sperimentale aperta nel 2023 e curata da Gaia Delpino, Rosa Anna di Lella e Matteo Lucchetti. Alle collezioni dell’ex Museo coloniale si sono aggiunte opere critiche sulla storia coloniale italiana per creare continui riferimenti tra le forme di rappresentazione coloniale e le contro-narrazioni contemporanee.